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Miss Wightie, una vita all’attacco: la prima tennista che conquistò la rete-

Quando è troppo è troppo. Dopo che avrete letto quel che mi è capitato l’anno scorso mentre mi trovavo negli Stati Uniti credo concorderete con me che sia giunto il momento di affiancare al tennis qualche altra passione. Partiamo dal principio. C’è una località a circa sei miglia da Boston in cui fra fine estate e l’autunno dolci alture e fitti boschi stingono dal verde a mille tonalità di ruggine e giallo. Si chiama Chestnut Hill, la collina dei castagni. Qui dal 1850 in poi grandi lotti di terreno vennero venduti tutti in una volta alle più facoltose famiglie del circondario ed esse provvidero a costruirvi grandi magioni di campagna. L’adozione degli stili più in voga al tempo come lo Shingle di pietra e ciottoli e il Neocoloniale con i suoi ampi portici donò all’insediamento un’armonia estetica e naturale che dura ancora oggi. I lunghi viali alberati costeggiati da siepi rigogliose e prati lasciano intravvedere solo scorci di quelle storiche e imponenti abitazioni. In questi luoghi sospesi a metà fra i quadri di Thomas McKnight e la foresta di Sherwood prese sede nel 1922 il Longwood Cricket Club. Fondato 45 anni prima in contemporanea con l’edizione inaugurale di Wimbledon, negli Stati Uniti è uno dei templi del tennis. I suoi campi affiancati di verde prato videro i pionieri del gioco importato da Mary Outerbridge, la prima Davis nel 1900 e tre anni dopo i fratelli Doherty giocarne i singolari decisivi a pochi metri di distanza l’uno dall’altro contro Larned e Wrenn. Fra le sue mura si respira storia, chiudendo gli occhi si può ancora avvertire il sommesso fruscio di flanelle e l’aroma di tè e tabacco, mentre attutito giunge il suono di una pallina che colpisce corde rigorosamente in budello. Wham, Bang, I colpi che sento però non provengono dall’avito luogo. Esco in Hammond Street e lasciandomi alle spalle le persiane verdi dell’elegante club house color avorio ecco che questi si fanno più forti. Wham, Bang, Wham, Bang, Dopo qualche centinaio di metri, a un paio di profondi lob di distanza, attraversato un ponte di vecchio metallo rivettato e ingentilito da siepi, si incrocia Suffolk Road. Ora il ritmo è martellante e regolare, come quello di un grande cuore che batte. Wham, Bang, Wham, Bang, Wham, Bang. Il rumore proviene da un enorme garage doppio di solide mura, con il tetto appuntito decorato da tegole di pietra marrone, che sta accanto a una grande villa gialla. Mi azzardo ad entrare. Pavimentazione grezza di cemento, soffitto altissimo, una rete da tennis tesa a metà. Le quattro pareti sono coperte da pannelli di legno ed è contro uno di quelli che una minuta signora, i capelli più bianchi della gonna ampiamente sotto il ginocchio, mi dà le spalle e gioca con ardore. E mentre la candida pallina colpisce sempre lo stesso punto – tre dita sopra la linea della rete – ritornando docile dalla sua padrona, la sento dire con voce gioiosa “ritmo ed equilibrio, mai incrociare i piedi. È così facile! Potrei farlo per sempre”. Tutto di quella scena sembra appartenere al passato eppure si sta svolgendo sotto i miei occhi. Rimango impalato sul portone a guardare. D’improvviso e senza girare la testa lei si rivolge a me. “Buongiorno giovanotto, deve essere un sincero appassionato di tennis se è giunto fin qui”. Allibito, non riesco a proferire parola. Lei mi guarda e increspa le labbra in un sorriso di benvenuto, poi posa l’antica racchetta in legno e si dirige svelta verso di me. È così leggera e aggraziata che sembra non toccare il pavimento. La dama ha occhi grigioblu che non riesco a smettere di fissare e per qualche strano motivo mi è impossibile darle un’età. Tendo la mano e mi presento nel mio inglese casereccio, scusandomi per l’intrusione. “Nessun problema” risponde, “qui è la regola. È da tanti anni che insegno a chiunque varchi la soglia, e non ho mai chiesto un penny in cambio”. “Mi perdoni signora, con chi ho il piacere di parlare?” Sono stato troppo diretto, goffo e inopportuno e la mia ospite sottolinea la cosa inarcando le sopracciglia. Poi mi fa la gentilezza di rispondere. “Chi sono io? È una lunga storia che non racconto da tanto… Ma se hai voglia di sentirla, e soprattutto di bere una buona tazza di té, mi farà piacere ricordare. Prima però devo finire l’allenamento”. E così dicendo riprende a martellare la povera parete. Poco dopo siamo seduti comodamente in un angolo del garage su due poltrone che hanno visto anni migliori. “Dunque giovanotto – mi chiede secca – cosa vuoi sapere?” “Tutta la storia, dal principio”, rispondo io sempre stregato da quegli occhi. “Oh, bé, allora! Se vuoi il principio, quello avrai. Dunque… Tutto è cominciato in mezzo al mare nel 1638, a bordo dell’Hector, un elegante vascello dalle linee affilate che faceva la spola fra le due sponde dell’Atlantico. Confuso fra i passeggeri che cercano una nuova vita nei vasti orizzonti del nuovo mondo c’è un giovanotto inglese di 15 anni, il suo nome è James Hotchkiss. Viaggia da solo, i parenti sono rimasti in patria nella contea di Shropshire. Giunto a New Haven la vita non si rivela facile per lui. Ai tempi della prima migrazione seguita alla traversata del Mayflower la morale puritana nelle colonie d’America era soffocante. Le cronache del tempo riferiscono che James venne multato due volte perché portava una pistola arrugginita e dormiva in servizio di guardia. Era solo un ragazzo ma le regole erano dure, e duramente fatte rispettare. Nel 1642 lui e una certa Elizabeth Cleverley vengono frustati sulla pubblica piazza per “filthy dalliance”, una relazione sporca dal momento che entrambi erano minorenni. Il giorno dopo la gogna ottengono dallo stesso giudice che li aveva condannati il permesso di sposarsi. Nascono sei figli e così inizia il radicamento degli Hotchkiss oltremare. Ma il cammino è solo all’inizio. Lo spirito di avventura e il coraggio che spinsero il quindicenne Samuel oltre l’Oceano scorre misto a sangue nelle vene della nostra famiglia e ai primi del 1800 un pronipote di nome Benoni si stabilisce a Campbellsville, Kentucky. Qui si afferma come il più ricco mercante dello stato. Intanto la giovane nazione costruisce sé stessa cavalcando verso Ovest e tutte le contraddizioni che la agitano stanno per esplodere nel conflitto fra Nord e Sud. Manca meno di un anno al colpo di cannone sparato a Fort Sumter che segna l’inizio delle ostilità quando il figlio Benoni jr carica averi e famiglia su un carro coperto per percorrere l’Oregon Trail, il tragitto di oltre duemila miglia che portava fino in California. Era un tuffo nel buio, era il West. Oltre il Mississippi le grandi pianure erano popolate da Sioux, Cheyenne e Comanche, popoli pacifici che solo la mendace storia scritta dai vincitori ha fatto apparire come bellicose e sanguinarie. Il loro sterminio da parte dell’uomo bianco venne programmato minuziosamente. La Guerra Civile è agli sgoccioli nell’inverno del 1864. Presso un’ansa del fiume Sand Creek in Colorado sono accampati circa seicento Cheyenne, per due terzi donne e bambini. È fine novembre, il freddo intenso e dalla cima dei tepee esce il fumo del focolare domestico. Gli uomini sono a caccia e le donne raccolgono i frutti della terra quando un drappello di soldati irregolari comandato dal colonnello John Chivington compare all’orizzonte. Costui in un discorso pubblico tenuto a Denver poco tempo prima aveva dichiarato che “…bisogna uccidere e scotennare tutti gli indiani, anche i neonati, perché le uova di pidocchio generano pidocchi”. Le tribù accampate sono tranquille, si sentono protette dai trattati firmati poco prima e del resto da tempo intrattengono rapporti commerciali con il vicino Fort Lyon. Quel che purtroppo non possono sapere è che l’infame colonnello agisce sotto preciso mandato del governatore del Colorado John Evans, un alfiere della linea dura. È l’alba, il drappello di soldati arriva a 400 metri dal villaggio e apre il fuoco. Il capo Cheyenne si chiama Pentola Nera, un nome ben poco bellicoso. Quando il cuoio della sua tenda viene squarciato dai proiettili si precipita fuori e raduna donne e bambini intorno a un palo con issata la bandiera statunitense. Gli avevano promesso che sotto di essa sarebbero stati al sicuro. Ma l’uomo bianco parla con lingua biforcuta e il gruppo viene falciato senza pietà dai winchester. Il vecchio capo Antilope Bianca va incontro alle truppe gridando di fermarsi in un inglese comprensibilissimo, secondo il racconto di Robert Bent, un meticcio costretto a far da guida al drappello. Crolla immediatamente crivellato dai colpi e si dice che con gli ultimi aliti di vita abbia intonato il canto di morte della tribù. “Niente vive a lungo, solo la terra e le montagne…” Quando tutto finisce sul terreno si contano centotrentatré morti. Solo ventotto sono uomini, il resto donne e bambini orrendamente mutilati. Fra gli assalitori le vittime non arrivano a dieci. Quando la Guerra Civile termina il nuovo nemico da eliminare sono proprio i pellerossa. Dopo il 1865 l’avanzata verso Ovest riprende a pieno regime e le tribù indigene si vedono rubare la terra sotto i piedi. Grandi capi come Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa e Toro Seduto non hanno alternativa ma mandano un’ultima ambasciata al governo. “Se esiste un viso pallido che dice la verità mandatecelo e noi lo ascolteremo”. L’incaricato scelto da Washington è George Crook, il più grande avversario degli indiani nella storia americana ma l’unico al quale prestassero fede. La via è tracciata. Lui è un uomo di guerra, non un macellaio come Chivington. Quando accettò l’incarico aveva appena condotto una cruenta campagna contro gli Apache e alla domanda se non fosse troppo duro ricominciare daccapo rispose: “…Sì, è duro! Ma la cosa peggiore è andare a combattere contro coloro che sono nel giusto”. A Little Big Horn vinsero una battaglia, ma la guerra era già persa da tempo. Questo era quel mondo quando Benoni Hotchkiss attraversa le pianure insieme a mia nonna Virginia e ai due figli. Il maggiore ha due anni e si chiama William Josephus, per tutti W.J. Giunta in California dopo mesi di viaggio in terre ostili – Virginia odiò sempre i picnic perché, diceva,“…ne ho avuto abbastanza di fuochi da campo e vita all’aperto!” – la famiglia acquista 375 acri di terra a Healdsburg, un centinaio di chilometri a nord di San Francisco. W.J. cresce e si innamora di Emma Grove, di cinque anni più grande di lui, la cui famiglia, che possedeva il ranch adiacente, aveva percorso l’Oregon Trail quasi in contemporanea alla sua ma in treno, portandosi dietro pure un pretenzioso pianoforte a coda. La corte fatta di andirivieni in calesse su strade polverose ha successo. Wiliam e Emma si sposano il 25 novembre 1880 e nei dieci anni seguenti mettono al mondo cinque figli, quattro sono maschi. L’unica femmina fui io, la luce degli occhi di mio padre. Mi hanno chiamata Hazel Virginia e sono nata nella casa di famiglia il 20 dicembre 1886. È lì che comincia il mio viaggio. Devi sapere che a quei tempi il tennis si giocava a Est. Era naturalmente approdato su quelle coste dalla madre Inghilterra e nelle piovose estati lì si tenevano i primi tornei importanti sui prati verdi di circoli esclusivi quali il Newport Casino, il Philadelphia Cricket Club o il Longwood di Boston. Le dame in ombrellino e i cavalieri in tuba e redingote che li popolavano avevano solo una vaga idea di quel che ci fosse oltre il Mississippi. La California era distante come Marte, i suoi abitanti probabilmente vivevano in capanne di tronchi cacciando castori. La conoscenza reciproca e l’integrazione viaggiavano lente, al ritmo del telegrafo e del treno a vapore. La realtà era ben diversa e presto quei prestigiosi prati diventeranno terra di conquista per i Grizzly Beards che giungevano da lontano. La prima pallina rimbalzò in California pochi anni prima che io nascessi. Nel 1879 William Allen e William Young, un inglese e un canadese in villeggiatura con le rispettive famiglie, stesero un nastro grezzo attraverso la via sterrata di Santa Monica e lì, fra nuvole di polvere, ebbe luogo il primo incontro di cui si abbia notizia. Solo un anno dopo gli indiani della Marin County vendevano cesti di conchiglie frantumate a privati che le utilizzavano come una sorta di terra battuta per costruire campi da gioco nelle loro tenute. Non costretti dai rigidi lacci sociali presenti a Est, i californiani diedero al gioco una impronta democratica, promuovendone lo sviluppo in maniera molto più libera e accessibile e il clima ebbe un ruolo fondamentale. In quei luoghi non piove, inoltre il suolo è poco adatto all’adozione di campi in erba e così si optò per il cemento, una superficie economica a basso costo di mantenimento. Laggiù al caldo il tennis comincia a correre veloce. Dal 1890 in poi come d’incanto spuntano circoli e club su tutta la costa fra Los Angeles e San Francisco, dove già nel 1894 John Mc Claren – l’architetto paesaggista creatore del Central Park di New York – promosse la costruzione di due campi in terra e una club house. Nel 1901 i campi erano diventati ventiquattro e tutti liberi al pubblico. Il sole perenne instillava un amore viscerale per la vita all’aria aperta. In quella lontana landa promessa dello sport i cinque pargoli Hotchkiss crescono liberi, attivi e competitivi l’uno con l’altro. Mamma e papà – un venture capitalist che fece milioni di dollari e perse tutto dopo il crac del ’29 – avevano aspettative molto alte per noi e ci spingevano a dare sempre il meglio qualunque cosa facessimo. Lo spirito dei pionieri, fatto di concretezza, odio per i sotterfugi e volontà di aiutare i propri vicini è potente e i quattro maschi mi portavano volentieri con loro nei giochi all’aperto. Ero fragile e pativo continui mal di testa finché un dottore mi consigliò di stare il più possibile all’aria, e quale luogo migliore delle centinaia di acri di terra, alberi e acqua della tenuta di famiglia per mettere in atto la cura? In questo scenario, che qualora comprendesse il Mississippi potrebbe benissimo essere uscito dalla penna del Mark Twain i malanni scomparvero e crebbi forte e resistente come il Joshua Tree, una pianta del deserto che mi somiglia molto. Non è molto alta ma sviluppa radici profondissime e può vivere per secoli. In quei primi anni di formazione mi accorsi subito di possedere talento e coordinazione nei giochi con la palla. Sono competitiva e orgogliosa, forse anche intelligente e in breve tempo sono diventata una delle migliori del gruppo nel baseball. Quando all’inizio di lunghi pomeriggi di sfide e sudore le squadre venivano composte, ero regolarmente scelta fra i primi. E nei momenti cruciali il box di battuta era cosa mia perché sapevo colpire la pesante pallina meglio e spedirla più lontano di chiunque altro. Quelle splendide e lunghe giornate comprendevano sovente giochi pericolosi come saltare steccati e recinzioni con aste rudimentali o arrampicarsi a mani nude sugli alberi più alti della tenuta. Ci voleva coraggio, e tanto, lo stesso a cui ho dovuto attingere nei momenti cruciali dei miei match. Non sempre tutto filava per il meglio e quando riportavo sbucciature e tagli assortiti i miei fratelli, al rientro a casa, mi facevano schermo fino alla camera per evitare rimproveri. Le fortune della mia famiglia intanto crescevano. La Central California Canneries, l’azienda di inscatolamento fondata da papà, prosperava tanto che nel 1916 si fuse con la Cal Pak dando vita al gigante Del Monte Corporation. Per meglio seguire le iniziative di affari del capofamiglia abbandonammo Healdsburg per trasferirci a Berkeley, in una grande casa with lovely bay windows al 2985 di Claremont avenue. La traversa che delimitava il retro dell’abitazione oggi si chiama Hazel Road. Inizia il nuovo secolo e con lui il tennis diventa grande. Nella primavera del 1902, mentre Dwight Davis lustra la sua coppa e oltreoceano i fratelli Doherty si preparano a rapirla, il gioco irrompe nella mia vita. Dovevo ancora compiere sedici anni quando Homer e Marius mi portarono sul campo dell’hotel San Rafael di Frisco per assistere a un incontro di cartello. Era una lotta in famiglia perché sul rettangolo si sfidavano Florence Sutton e sua sorella May, una dominatrice. Quel giorno non potevo certo immaginare di osservare colei che sarebbe stata la mia più dura avversaria nella prima feroce rivalità del tennis femminile. Nonostante la grandezza delle due che lottavano sotto i miei occhi però, trovai subito estremamente noioso lo stile di gioco delle contendenti. “It was boring, the ball passed over the net as many as fifthy times in a single rally before someone made an error or finally won the point by a placement”. Poco male comunque, perché pochi giorni dopo ho scoperto la mia via. Questa volta Homer mi portò a vedere un doppio dei fratelli Hardy, la coppia più forte in California, e fu una rivelazione. Sono rimasta a bocca spalancata mentre sotto ai miei occhi Sam e Summer volavano per il campo. Attacchi dietro al servizio, incroci a rete e volée piazzate negli angoli si susseguivano sotto i miei occhi rapiti. Eureka! Avrei giocato anch’io così. Immediatamente il cortile dietro casa venne colonizzato. Un nastro di seta rossa rubato dalla scatola del cucito di mamma fu teso fra un cespuglio di lamponi e il roseto che rampicava sul muro. La superficie in cemento però era troppo irregolare, tutta crepe e buchi, e così trovammo naturale prendere a colpire al volo o in controbalzo la pallina. È iniziata in questo modo la costruzione del mio gioco, uno stile mai adottato prima fra noi signore, fondato su attacco e anticipo a tutti i costi. Attenzione, accuratezza e riflessi vennero allenati ora per ora, giorno dopo giorno. Credimi, erano abilità necessarie per rimanere illesi in quegli accaniti scontri, l’unico modo per non ritrovarsi a sera il corpo tappezzato di lividi blu. L’anticipo sulla palla divenne una specie di seconda natura per me. A detta di Arthur Wallys Myers, solo la divina Lenglen e io possedemmo appieno quel dono. Non sono mai stata influenzata da un maestro che mi dicesse cosa fare e come farlo – colpire in questo modo o muoversi in quest’altro –, ero libera. Semplicemente imparavo quel che serviva per spedire la palla dove volevo io. Come l’Emilio di Rousseau apprendevo e affinavo le mie abilità senza la coscienza di farlo. “What’s half -volley?” risposi candida ad un cronista che ai primi successi mi chiedeva conto dell’abilità che mostravo in demi-volée. Non sapevo si chiamasse così… È questo che ho cercato di insegnare alle giovani promesse del tennis per tutta la vita. Niente tecnicismi esasperati, stringhe legate alla testa della racchetta o ore passate a correggere impugnature. Solo ritmo, bilanciamento, controllo dei colpi e un muro come istruttore, meglio se di legno. Quelli che vedi qui intorno sono lievemente inclinati, in modo che la pallina ritorni indietro in modo dolce. È così che ho fatto io, da sola, senza maestri, colpendo a ripetizione palline contro il muro di casa. Ero l’unica ad avere il permesso di farlo perché ero precisa e non rompevo mai le finestre. Credo di aver vinto circa 43 titoli in tutte le specialità, l’ultimo a 67 anni. Fra questi quattro US Open in singolo, un Wimbledon in doppio e due ori olimpici a Parigi 1924. Ma per come la vedo io non c’è vittoria che valga la soddisfazione di aiutare ragazzi e ragazze a scoprire le gioie di questo gioco. L’insegnamento è la mia vera passione, ho iniziato presto, con Helen, e non ho più smesso, come puoi vedere. Ma non perdiamo il filo. Eravamo ai primi del ‘900 e l’unico campo da tennis dei dintorni apparteneva all’università di Berkeley, quella stessa da cui anni dopo uscirono tutti quei capelloni… Ma quella è un’altra storia. Ebbene, ai tempi noi donne non potevamo usufruirne dopo le 8.30 del mattino ma in famiglia non ci siamo mai persi d’animo, così escogitammo uno stratagemma. Mio fratello Homer andava a dormire con uno spago legato all’alluce, l’altro capo correva lungo la stanza e poi giù dalla finestra fino in giardino. Tutte le mattine, prima dell’alba un vicino, che faceva da quarto per il doppio, tirava con forza la fune. Homer svegliava Marius e me e dopo aver raccattato qualche mela dalla cucina trottavamo per un miglio circa fino al campo. Si tornava a casa stanchi ma accesi di passione verso le sei e mezza e io facevo i miei esercizi al pianoforte prima di andare a scuola. Così avrei avuto il pomeriggio libero per provare a sconfiggere il muro di casa. L’unico avversario che non ho mai battuto. Dopo alcuni mesi di allenamenti in famiglia conquistai il mio primo trofeo. Ricordo ancora il viaggio in ferry boat attraverso la baia. Mentre fantasticavo su quel che mi aspettava conobbi una ragazza di nome Mary Ratcliffe, per combinazione anche lei era iscritta al mio stesso torneo e immediatamente decidemmo di far coppia nel doppio. Lei mi copriva le spalle, io agivo dalla linea del servizio in avanti chiudendo ogni palla che mi passasse vicino. Vincemmo sempre senza perdere un set e quando battemmo in finale le detentrici Emma e Maud Varney scorsi facce attonite e meravigliate fra il pubblico. Non avevano mai visto due donne giocare il doppio alla maniera dei maschi. Il giorno dopo il San Francisco Chronicle scrisse questo a proposito dell’incontro: “…the most intresting and scientific women’s doubles match yet witnessed at the Park Court”. Non male per una prima volta. Avevo assestato il primo colpo di lama ai lacci che tradizionalmente ci tenevano inchiodate a fondocampo. Alice Marble, Margaret Court, Billie Jean e Martina hanno fatto il resto. Il doppio fu il mio primo amore ma cominciai a vincere anche in singolare perché le avversarie apparivano prima sorprese e poi inermi contro le mie tattiche aggressive. Non sono mai stata potente, mi vedi, dove avrei potuto prendere la forza? Sono bassa e squadrata come un pony e ho capito presto che avrei dovuto fare affidamento sulla testa per affermarmi. I miei colpi tagliati erano inutili negli scambi dal fondo, allora io cercavo di tenerli lunghi e alla prima apertura avanzavo fino a metà campo. Da lì piazzavo la demi-volée e solo dopo scattavo a rete. Maurice Mc Loughlin, the California Comet, è un caro amico, giocavamo insieme di frequente e mi aveva insegnato tutti i segreti dello smash, un colpo nel quale non ebbe eguali. Grazie a lui ricacciavo continuamente in gola alle mie avversarie i lob con i quali cercavano di buttarmi indietro. Nell’autunno del 1908 giunsero in California dall’Est quattro giocatori, fra cui il ben noto Wallace F. Johnson. Erano lì per disputare il Pacific Coas Championship e reclutare i tennisti più promettenti da invitare ai campionati nazionali dell’anno seguente. Wallace mi vide giocare e il giorno dopo si presentò a casa e convinse mia madre a spedirmi a Philadelphia l’estate seguente. Era il mitico Cricket Club, ci giocava un giovanotto di nome William Tatem Tilden II e allora ospitava i campionati femminili, ovviamente su erba. Quell’anno volò per me e mentre attraversavo il paese in treno alla volta della costa est cercavo di tenere a bada il nervosismo ricamando. Scorsi spesso mio padre che mi guardava con un sorrisetto nascosto. Io comunque sapevo bene cosa fare e quando farlo. Da lui ho ereditato le capacità strategiche, da mia madre invece ho preso la resistenza fisica e l’abitudine a non lamentarmi mai. In famiglia si racconta ancora di quella volta che mamma parcheggiò la macchina in discesa tirando male il freno a mano. Fatti pochi passi l’auto la investì da dietro rompendole una gamba. Lei guidò fino a casa, salì le scale e si stese a letto. Due giorni dopo era di nuovo in piedi. Non dimenticherò mai quel mese di giugno! Il verde odore dell’erba, l’eleganza delle dame, la sensazione che destò la mia blusa a maniche corte. Dovetti farla allungare un pochino, ma non troppo però. Volevo sentirmi le braccia libere per volée e smash. Vinsi tre titoli, il misto insieme a Wallace Johnson, il doppio con Edith Rotch e il singolo contro la detentrice Maud Barger Wallach. Nei due anni seguenti confermai i miei titoli e a onor del vero fu facile perché lei non c’era… Perché contro May Sutton, figliolo, era un’altra cosa… La prima volta che la incontrai mi accorsi subito che qualcosa non funzionava. Lei non lobbava mai, sparava forte al corpo. Veramente forte. Era nata in Inghilterra. Il padre, capitano di lungo corso della Royal Navy, aveva attraversato mezzo mondo per trasferire la famiglia a Santa Monica dalla natia Plymouth e sotto quel cielo le sue cinque figlie avevano impugnato una racchetta mentre ancora imparavano a camminare. Presto quattro di loro presero a dominare tutti i tornei della costa e fin da subito la più giovane, May appunto, emerse come la migliore. Dura e determinata, con la resistenza di un cavallo, maniche arrotolate e riccioli al vento che le ho sempre invidiato, la giovane Sutton distruggeva le avversarie con mazzate di dritto mai viste fino ad allora. Dalla sua racchetta impugnata con una western estrema uscivano traiettorie violente e liftate che non lasciavano scampo. “Il suo dritto era tanto potente da spaccare la pallina e così preciso da piazzarla su una moneta” scrivevano i cronisti. Quando ancora ci parlavamo mi aveva raccontato la storia di quel colpo. Appena trasferiti in California padre e sorelle avevano costruito un campo da tennis dietro casa. Ben presto però il terreno aveva ceduto inclinandosi verso destra e così tutte le palline si spostavano sul lato del dritto, obbligandola a esercitare oltremisura quel colpo. Ancora oggi c’è chi lo giudica il migliore di tutti i tempi. Io posso solo dire che se lasciavi rimbalzare quelle palline eri morta. Eravamo nate nello stesso anno, May però iniziò a vincere molto prima di me. E non vittorie qualunque, i campionati statunitensi nel 1904, Wimbledon l’anno dopo – la prima non inglese a farlo – e ancora nel 1907. In Inghilterra le maniche arrotolate fecero tanto scandalo quanto scalpore provocarono i suoi colpi mascolini. Era formidabile, in singolare certo migliore di me, ma mi seppi comunque far valere. Conquistate le corone più importanti May si chiuse in una torre d’avorio, molto compresa nel suo ruolo di regina del tennis. Giocava principalmente in California e ne usciva solo se gli organizzatori di un torneo si facevano carico delle spese sue e della sua corte. Non era una persona simpatica e l’ultima volta in cui chiacchierammo amabilmente fu a Londra nel 1905, quando ancora io non ero una minaccia per il suo trono. Ma stavo arrivando… “This slip of a girl play tennis like a strong man” scrivevano di me mentre cominciavo a vincere pressoché tutti i tornei che si disputavano nel nord della California. Ero sempre iscritta anche in doppio e misto e spesso mi veniva chiesto di giocare in esibizione contro tennisti maschi. Vendevo cara la pelle e lo stesso feci quando inevitabilmente le nostre strade presero ad incrociarsi, la regina del Nord contro quella del Sud, in vago stile Mago di Oz. La prima volta che ci incontrammo fu nella semifinale del Pacific Coast Championships a Del Monte, persi in due set facili e uscii dal campo frastornata come un campanaro. Per oltre un anno non ci fu nulla da fare, era terribile giocare contro di lei perché niente poteva prepararti a quei pallettoni che rimbalzavano in cielo e ti spezzavano il polso ma a ogni sconfitta facevo un piccolo passo. Il mio gioco da fondo divenne più consistente, profondo e regolare. Imparai che contro di lei bisognava saper attendere il momento giusto, un colpo lungo e possibilmente sul suo rovescio, prima di attaccare la rete. Ma non solo. Come tutti i dominatori May Sutton non reagiva bene quando le cose in campo non marciavano secondo i suoi desideri, ed è comprensibile considerando che fra il 1900 e il 1910 perse solo tre incontri, e tutti in Inghilterra. Lei chiudeva lo scambio in tre colpi, non sapeva cosa significasse combattere punto a punto e neanche le interessava. Così, pur continuando a perdere, mi concentrai nel renderle sempre più difficile la vittoria e quando ci riuscivo notavo chiari segni di dispetto sul suo volto. Li registrai tenendoli a mente per il futuro. Poi nel febbraio 1910, nel corso della finale al Coronado Country Club di San Diego, finalmente vinsi un set. Rimasi in partita fino al 4 pari del terzo, il pubblico tutto dalla mia parte e il fumo che usciva dalle narici di May, prima che lei trovasse le righe in un paio di punti decisivi. Nessuno al di fuori della famiglia aveva mai strappato un set alla grande Sutton e quello fu un ceffone in piena faccia. L’avevo finalmente ferita, gli incontri seguenti si trasformarono in battaglie ma il mio momento stava per arrivare, lo sapevo, lo sentivo. E nessun dio del tennis avrebbe saputo scegliere meglio la cornice. Era il 23 aprile 1910. Ci incontrammo nella finale dell’Ojai Valley Tournament, una competizione che esiste ancora ed è ospitata in uno dei club più belli del mondo. Si gioca a nella contea di Miramonte, fra Los Angeles e Santa Barbara, su splendidi campi che querce dal tronco enorme ombreggiano. Giovanotti in flanella con dame a braccetto si aggiravano leggiadri sui prati circostanti i campi ma il giorno della finale erano tutti accalcati intorno al Centrale. Spesso è il pubblico ad avvertire come una sorta di premonizione che qualcosa sta per accadere e quel giorno ebbero proprio ragione. Io mi sentivo perfettamente a mio agio mentre fin dall’inizio compresi che per May non era così. È buona norma nel corso del riscaldamento consentire all’avversario di colpire in scioltezza e continuità ma lei non ne aveva la minima intenzione. Sparava a tutto braccio spedendo volontariamente la pallina il più lontano possibile da me, senza darmi la possibilità di palleggiare. La situazione era imbarazzante e quando il giudice arbitro chiese a May se avesse intenzione, così facendo, di ritardare l’inizio del match la sua risposta lo fulminò sul seggiolone. “Se non ti piace il modo in cui sto giocando, non giocherò del tutto!”. Il clima era ormai questo fra noi due. Non iniziò bene, primo set 6-2 netto per lei. Ma non era un punteggio giusto, stavo giocando benissimo, riuscivo ormai a prevenire la direzione dei suoi fendenti dal suono della pallina sulle corde e solo qualche punto sfortunato e un paio di volée out di un dito decretarono il risultato. E questo lo sapevano benissimo sia il pubblico che May, la quale alla ripresa non era per nulla baldanzosa come d’abitudine. E aveva ben ragione perché da quel momento in poi tutti i pezzi del mio gioco andarono magicamente a posto. Riuscivo a piazzare sempre i miei colpi nel fazzoletto di campo del suo rovescio e avevo ormai imparato a ribatterne il dritto giocando praticamente in controbalzo per annullare gli effetti di quel topspin esasperato. A rete poi mi trovavo d’incanto nel posto esatto per chiudere i passanti. Ero in stato di grazia e sorvolai gli ultimi due set lasciandole sei giochi in tutto. Al match point tutti stavano trattenendo il fiato e per un istante ci fu silenzio assoluto, quello stesso che sempre intercorre fra un lampo accecante e il tuono che lo segue. Poi il boato, ce l’avevo fatta. May era attonita quando chiusi l’ultima volée e non fece altro che avviarsi decisa all’uscita del campo, che distava solo pochi metri. Io ero a rete con la mano tesa e quando la vidi scappar via la raggiunsi di corsa ma non mi guardò neanche. Così era la Grande Sutton, la sconfitta non faceva parte della sua esistenza e quello era il suo modo di fingere che non fosse avvenuta. Fu solo uno degli episodi rimarchevoli che caratterizzavano i nostri incontri. Eravamo come due pietre di selce, ogni urto generava scintille. A settembre dello stesso anno accadde ancora. Fu durante la semifinale dei Pacific Coast Championships a Los Angeles, forse la più bella partita che giocammo mai. Bé, stai a sentire. Tanto pubblico da non poterci far cadere uno spillo in mezzo, lei con una luce assassina negli occhi che cerca di spaccarmi a pallate e vince un primo set tirato. Ma ci ero abituata e il mio momento arriva. May non poteva reggere quel ritmo, nessuno avrebbe potuto, Infatti a metà secondo set ebbe un netto calo fisico. Senza quello il suo gioco non esisteva, strategia o tattica non trovavano posto nel suo vocabolario. Ero padrona dell’incontro, sentivo che avrei vinto, avvertivo già quel dolce sapore in bocca. Rimasi lucida durante la sosta che preludeva al set decisivo, sapevo cosa fare e come farlo quando mi alzai e presi posto in campo. Poi mi girai e dall’altra parte non c’era nessuno. May Sutton, la regina, era ancora comodamente seduta al suo posto. “I would like to have a cup of tea if possible” chiese all’arbitro con tutta l’aterigia e la naturalezza del suo rango, dopodiché si sedette e attese finché non giunse in campo un cameriere in livrea bianca spingendo un carrello con tazzine e teiera fumante. Io non lo davo a vedere ma fumavo di più. Quando sua maestà volle il gioco riprese e lei vinse 6-4. Ma adesso avevo incrinato le sue certezze e alla fine del 1911 la battei ancora. Quella fu per me la stagione perfetta, vinsi per il terzo anno filato singolo, doppio e misto ai Campionati Nazionali di Philadelphia e per la prima volta avevo il permesso di rimanere a Est per i tornei della stagione. Non so com’è ma fra il pubblico scorgevo sempre la figura allampanata di tale George Wightman, un bostoniano che studiava legge ad Harvard. Per motivi che avrei presto compreso da qualche tempo me lo trovavo costantemente intorno. George era fra il pubblico anche ad agosto, quando May e io ci trovammo nuovamente di fronte nella finale del torneo di Niagara on the Falls. Si giocava su erba che un temporale aveva reso simile a una risaia, le palline schizzavano via bassissime e dopo pochi colpi pesavano un quintale. In quelle condizioni non riuscivo a controllare le sassate di May, sbagliavo moltissimo – cosa inusuale per me – e in un battito d’ali persi il primo 6-0 e finii sotto 1-5 nel secondo. Non ci potevo credere, tanta fatica, un inseguimento lunghissimo per poi finire massacrata così. Sono sempre stata una combattente e non smisi di pensare neanche con i piedi sul baratro. Ed ecco, improvvisa, la svolta. Non riuscivo a essere stabile sul campo e quindi chiesi all’arbitro il permesso di indossare le scarpette chiodate, anche May avrebbe potuto ma rifiutò sdegnosamente. Tutto migliorò all’istante, ora mi piegavo bene per raccogliere quei rimbalzi assassini mentre recuperavo gioco dopo gioco. Probabilmente lei stava già pensando ad alzare la coppa e quando si accorse che io non avrei mollato era troppo tardi. Strappai quel secondo set sul filo di lana e nel terzo la mia avversaria non c’era più. 0-6 7-5 6-0, quando chiusi il match point non riuscivo a credere al tabellone. Ancora una volta dovetti rincorrerla per la stretta di mano e quando la raggiunsi mi sibilò “Giochi proprio un tennis di merda”. May Sutton era fatta così, niente era mai abbastanza pur di raggiungere la vittoria ma non gliene faccio una colpa. È difficile per me criticarla perché lei non conosceva altro oltre il tennis, non volle andare a scuola e fin dall’inizio fu la migliore con una racchetta in mano. Ma non aveva testa, un bue avrebbe potuto analizzare un colpo o una tattica meglio di lei. Il matrimonio interruppe la nostra faida quando nel 1912 io sposai George Wightman di Boston, figlio di Henry, braccio destro del barone dell’acciaio Andrew Carnegie e May convolò a nozze col mio ottimo amico e gran tennista George Bundy. Non so più quante volte l’ho sentito ripetere: “Hazel, May ha bisogno di una buona lezione, cerca di batterla per favore”. Il trasferimento sulla costa Est fu una delle partite più complicate che mi toccò giocare, ma oggi posso dire a buona ragione di averla vinta. E a modo mio. Fu dura agli inizi perché un marito, quattro figli e una grande casa da mandare avanti divoravano ogni attimo della giornata e all’alba del 1920 mi scoprii irrequieta e alla disperata ricerca di qualcosa, di un’ispirazione per il futuro. Se credevano di tenermi inchiodata a un’esistenza fatta di dame coi capelli azzurrati che servivano il tè alle cinque si sbagliavano di grosso! È stata una lettera ricevuta all’indomani della mia ultima vittoria in singolo ai Campionati statunitensi – e soprattutto la firma in calce – a riaccendere la lampadina. La scrivente era una giovane francese di nome Suzanne Lenglen, la quale si complimentava con me e auspicava un futuro incontro fra noi. Quell’incontro non ebbe mai luogo ma tanto bastò per farmi balenare in mente un’idea. Perché non organizzare un incontro internazionale fra le migliori tenniste sulle sponde opposte dell’Atlantico prendendo a modello l’iniziativa di Dwight Davis che tanto successo aveva avuto? Giusto il tempo di pensarlo e già varcavo la soglia di N.G. Wood & sons di Park street, Boston. Avevo in mente la ormai classica insalatiera ma il sig. Wood non aveva niente di simile. Così optai per una coppa d’argento snella e alta ventotto pollici, che sembrava più adatta ad accogliere rose recise piuttosto che l’inebriante vino della vittoria. Diventerà, io non volevo quel nome, la Wightman cup, la nostra Davis. Nonostante l’iniziale entusiasmo ci volle qualche anno perché riuscissi a convincere la federazione del mio paese, allora capeggiata dal mio buon amico Julian Myrick, a organizzare la contesa. Si decise di coinvolgere nella sfida solo l’Inghilterra, anche se la sottoscritta premeva per una competizione mondiale. Non fu così ma l’importante era il primo passo, che si compì fra l’11 e il 12 agosto 1923 quando la nostra selezione, capitanata da me, sconfisse le cugine inglesi per 7 a 0. Helen Wills e io vincemmo insieme uno dei due doppi. Già, Helen Wills… Ogni anno a fine estate caricavo prole e bagagli sul treno e attraversavo la nazione in visita ai miei genitori. Era una magia, man mano che la locomotiva divorava rotaie e traversine tutte le convenzioni e i manierismi della costa Est mi cadevano di dosso come foglie in autunno e quando sentivo il profumo del Pacifico ero tornata una Grizzly Beard. Ai primi di settembre di quel 1920 mi aggiravo senza meta fra i campi in cemento dell’università di Berkeley. Si narra che alcuni scout di baseball riconoscano un campione dal suono della mazza in battuta e in un istante compresi che quelle storie sono vere. Furono colpi di ritmica e armoniosa nettezza che fecero volgere il mio sguardo verso quella ragazzina di quattordici anni. Longilinea, trecce al vento e una visiera sugli occhi di sua ivenzione, colpiva forte dalla linea di fondo senza mai sbagliare. Volli immediatamente conoscerla e chiesi di poterla allenare. Giocavamo quattro volte alla settimana e le doti innate di Helen non smettevano mai di stupirmi. Concentrazione, volontà di migliorarsi, umiltà nell’apprendere. Unite questo al talento nel colpire una pallina di feltro e avrete una vera campionessa. Le sole mancanze di quella macchina da tennis erano il gioco di gambe e la volée e su questo lavorammo per tutto il periodo. Anni dopo, comodamente assisa su otto Wimbledon e una montagna di altri trofei, lei ebbe ancora la gentilezza di dichiarare che solo il giorno in cui ci incontrammo iniziò veramente la sua educazione tennistica. Ma in realtà fu lei a indicarmi una nuova strada. E l’avrei percorsa fino alla fine della mia vita. Arrivò il1924, un anno memorabile. Helen e io conquistammo Wimbledon e l’alloro olimpico a Parigi, su quegli orrendi campi in terra battuta terminati all’ultimo momento e molli come spiagge. Io mi abituai presto alle condizioni di gioco, tanto da portare a casa anche il titolo del doppio misto insieme a Dick Williams. Lui si era rotto il tendine d’Achille in semifinale ma per un sopravvissuto al naufragio del Titanic non era che una piccola noia… Era un tennista fenomenale, colpiva piatto di controbalzo mezzo metro dentro al campo e in luna buona era imbattibile. Maestro del gioco a metà campo, la cosiddetta “terra di nessuno” era inoltre una sorta di cavalier cortese, che considerava scorretto alzare un pallonetto su una donna che giocava controsole. Il giorno della finale tutta USA contro Vinnie Richards e Marion Jessup però Dick era immobile. Poteva colpire solo a distanza di un passo, così gli dissi: “tu prova a chiudere il punto su ogni palla che ti capita a tiro, al resto penso io”. Forse non ci credevo neanche ma funzionò. Non ricordo quanti lob ho recuperato e quante palle ho rincorso quel giorno ma l’ho fatto, e alla fine il tabellone recitava 6-2, 6-3 per noi. Quella magica estate però non era ancora terminata. Si dice che una racchetta sia un passaporto per ogni città del mondo. Bene, quel che accadde nel lungo viaggio di ritorno dalla Francia conferma l’adagio. Al termine dei Giochi parigini, l’ambasciatore statunitense Alexander Moore invitò la squadra di tennis a nome della regina di Spagna Vittoria Eugenia a trascorrere un fine settimana ospiti del tennis club di San Sebastian, località sul Golfo di Biscaglia dove i reali tenevano il loro palazzo estivo. Quel sabato di agosto del 1924 fummo introdotti al cospetto della famiglia reale e dopo le presentazioni di rito, attraversammo il giardino fino a un campo in terra battuta orlato da querce enormi, che avremmo presto scoperto essere un problema per i lob… In quel momento il re Alfonso mi prese sottobraccio chiedendomi di far coppia con il secondogenito Don Jaime contro il borioso Principe delle Asturie e suo cugino e… di batterli! Intuivo in qualche modo di non essere che lo strumento di una lezione di vita che il sovrano voleva impartire all’erede ma l’ordine di un Re non si discute, si esegue. Don Jaime era scatenato, invadeva costantemente la mia parte e mi colpì un paio di volte in testa, ma ogni volta si scusò baciandomi la mano. Vincemmo facile in due set. Nell’incontro seguente io feci coppia con Julian Myrick contro Vinnie Richards e la regina Vittoria Eugenia. Dopo una mezz’oretta di buon gioco ci trovammo avanti 5-3. Quando Julian mi porse le palline per servire ci bastò uno sguardo per capire cosa fare. Tutto stava nel farlo con classe. E ci riuscimmo perché a pranzo il Re mi strizzò l’occhio sussurrando di non aver mai visto un incontro ceduto così galantemente. Poi con un sorriso volpino aggiunse: “Del resto anche quando gioco a polo la mia squadra vince sempre e io sono il migliore in campo…”. L’età è una bestia che avanza lenta e costante caro mio e bisogna sempre tenerla a bada con nuovi progetti. Avevo trentasette anni e quattro figli, il mio mezzogiorno era alle spalle ma poco mi importò. Ho scoperto di amare il gioco del tennis, se capisci cosa intendo. E una volta compreso quello tutto il resto venne di conseguenza. Negli anni seguenti mi capitò di lavorare al gioco di quasi tutte le più grandi. Helen Jacobs è stata l’allieva perfetta ma ebbe la sfortuna di essere di fatto contemporanea alla Wills. E non ci fu quasi mai storia, se non nella splendida, feroce, drammatica finale di Wimbledon 1930. Scorsi Sarah Palfrey nascosta fra le sorelle maggiori e mi permisi anche qualche consiglio alla divina Alice Marble, che dopo la sospirata vittoria sul Centre Court nel 1939 mi fece pervenire segretamente un ringraziamento. Questo perché Teach Tennant, la sua allenatrice ufficiale, non l’aveva presa affatto bene. Un giorno fui colpita da una folgorazione. Il vero tennis era a Est ma i campioni nascevano a Ovest, poche giocatrici potevano affrontare disagi e spese di un viaggio così lungo per disputare i tornei sull’erba, quindi perché non offrirsi di ospitarle per la stagione tennistica? Nella grande casa gialla di Boston lo spazio abbondava e mi misi subito all’opera. Le prime ospiti di casa Wightman furono proprio la Wills e sua madre, ricordo ancora il rumore tremendo che la giovane Helen faceva salendo le scale. “Ti prego cara, solleva con grazia quei piedoni” le ripetevo continuamente. E fu un successo. A partire dagli anni ’30 la mia casa in Charles street – e dopo il mio divorzio nel 1940 a Chestnut Hill – divenne il punto di riferimento per ogni tennista lontano dai suoi, da Los Angeles all’Australia. Shirley Fry non smise mai di ringraziarmi, Helen Jacobs voleva sapere in anticipo se ci sarebbe stata anche l’odiata Wills e una volta, al ritorno dal bridge serale, scoprii Margaret Court addormentata sui suoi bagagli in salotto. Senti cosa scrisse la cara Billie Jean; “At Longwood, Hazel conducted clinics and numerous tournaments. During tournament weeks her three-story home became a kind of sorority house for aspiring young girls and women from all over the world. Guests slept everywhere, from the basement to the solarium, coexisting peacefully with Mrs. Wightie’s cats, which came and went as they pleased through the open windows”. Il tennis mi ha reso una donna indipendente e l’ho amato tanto anche per questo. Ho amato soprattutto le migliaia di ore trascorse sul campo, e in questo stesso garage, circondata da ragazzi e ragazze con la racchetta in mano. Spesso non mi interrompevo neanche in pausa pranzo e continuavo a insegnare con la racchetta in una mano e un sandwich al tonno nell’altra. Una volta mi infortunai al polso e feci lezione per una settimana con la sinistra. Ho conosciuto i più grandi ma sono felice soprattutto di aver condiviso e diffuso la mia passione con migliaia di volti anonimi, ai quali ho insegnato che la cosa più importante è scoprire il proprio tennis. So che non mi hanno dimenticata. Un pomeriggio di aprile, doveva essere il 1973 o giù di lì, venne a trovarmi una mia allieva di tanti anni prima. Si chiama Janice Kaplan, oggi è una brava giornalista e scrittrice. Erano giorni che non mi sentivo bene e non riuscivo ad alzarmi dal letto, così feci accomodare Janice in camera. Ricordavamo i tempi andati e lei mi raccontava di non essere mai riuscita ad avere il pieno controllo dei suoi colpi. Il solo parlare di tennis mi aveva rinvigorito, balzai in piedi e presi due racchette dallo sgabuzzino. Giusto il tempo di un aiuto per allacciare le scarpe – sai, dopo milioni di smash la mia schiena scricchiola – e ci siamo dirette al garage. Abbiamo giocato forse un’oretta, prima con cautela, poi con entusiasmo. A un certo punto l’ho lasciata immobile con un dritto lungolinea e in quel preciso istante tutti i miei anni mi sono caduti di dosso. Una sensazione magica. Ricordalo sempre ragazzo, il tennis fa miracoli! Mentre il giorno declinava e io cercavo di orientarmi in quell’incredibile storia le parole dell’anziana signora cominciarono a perdere coerenza. Mi sembrò anche che i suoi contorni si sfocassero mentre a fatica e con gentilezza mi invitava ad andarmene. “Si è fatto tardi per me” disse. Il sole era tramontato da un po’ quando mi avviai per tornare all’albergo riflettendo su quello strano incontro. Dopo qualche centinaio di metri mi accorsi di aver dimenticato la giacca e mi affrettai a tornare alla casa gialla, sperando che Hazel non si fosse ancora coricata. Maledicendomi per la mia sbadataggine bussai alla porta e attesi. Bussai una seconda volta ma nessuno rispose. La casa sembrava vuota, abbandonata. Con cautela provai quindi a entrare nel garage con l’intento di recuperare la mia giacca e fuggir via alla chetichella ma appena dentro mi si mozzò il respiro. Il campo, la rete e le pareti di legno non c’erano più, al loro posto un banco da lavoro attrezzato e due fuoristrada Ford Ranger. Sono uscito barcollando e dovevo avere una faccia sconvolta perché un simpatico vecchietto affacciato a una finestra vicina mi chiese se avessi bisogno di aiuto. “Mi scusi” dissi farfugliando “lei sa per caso dov’è andata la signora Wightman?” “Ma figliolo, Hazel è morta da più di cinquant’anni…” “Impossibile! Abbiamo parlato tutto il pomeriggio, mi ha anche offerto il tè, eravamo faccia a faccia dieci minuti fa…”. L’uomo mi guardava con un sorriso enigmatico e non scorderò mai la sua risposta: “Figliolo, il tennis fa miracoli e quando si tratta di miss Wightie tutto è possibile…” Non so dire se ho sognato tutto questo ma io la giacca non l’ho più trovata. Mi piace pensare che serva a tenerla calda lassù in cielo. Wham, Bang! ...

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